Politica e TV, il connubio nefasto

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cavallo rai viale Mazzini Messina

Tempi di palinsesti, tempi di scontri. Tempi anche di riflessioni su come viene gestita la televisione pubblica. Nel Regno Unito i giornalisti della BBC sono obbligati da contratto a non rivelare la propria appartenenza politica. Sono anche obbligati a dare le notizie in modo asettico, rectius a non far trapelare la propria opinione. Pena il licenziamento.

In Italia, invece, i telespettatori sono vittima di un vergognoso bailamme che ogni anno si ripete puntuale. Stiamo parlando della spartizione della torta, pardon, della scelta dei conduttori per l’imminente stagione estiva e, soprattutto, quella invernale. Come ogni anno, si dà il via a immensi giri di giostra, o di poltrone che dir si voglia, e si assiste inermi a un imbarazzante teatrino che vede le diverse fazioni che popolano la RAI scontrarsi come se fossero in trincea.

Il tutto come se una gestione simile della televisione pubblica fosse normale. A fare da sfondo, poi, decine e decine di interviste in cui si finge di aver conquistato il proprio posto per merito. Merito, ah che termine inusuale per il Bel Paese!

Rai, punto di riferimento

La RAI è lottizzata da sempre, si sa, e non si dibatte delle ragioni storiche che sottostanno alla logica della televisione pubblica italiana. Vogliamo porre l’accento, invece, sul continuo cambio di conduttori in virtù del cambio politico.

La Rai dovrebbe essere il punto di riferimento dell’informazione per l’opinione pubblica. Dovrebbe rappresentare l’eccellenza, il punto più alto della capacità e della professionalità italiane. Troppo spesso, invece, si assiste a cambi repentini.

A fine primavera, poi, inizia la corsa al programma più ambito, come se si trattasse di una competizione di bellezza, di un talent show, con poco talent e molto show. Ci sono le poltrone da occupare e le pedine da spostare, i programmi da affidare e quelli da creare ad hoc per piazzare ora un amico ora un altro.

I programmi costruiti ad hoc

E così, ogni anno la stessa storia. Nel mentre, il pubblico non fa in tempo a memorizzare il nome di un conduttore, che subito ne compare un altro. Non fa in tempo ad affezionarsi a un volto, che…avanti il prossimo e, quando la musica si ferma, chi non è abbastanza veloce rimane senza sedia, dunque senza programma.

La riflessione riguarda principalmente i programmi minori, quelle strisce inserite qua e là con nonchalance nella speranza che il pubblico non si accorga di nulla. In particolare, gli sconosciuti o quasi cui vengono affidati. O, ancora, volti caduti nel dimenticatoio o non all’altezza delle aspettative, incapaci di gestire il mezzo televisivo, puntualmente piazzati al timone di un programmino che per come è stato concepito guardano in pochi, ma che proprio per questa ragione andrebbe invece affidato a qualcuno in grado di guadagnare pubblico.

È giusto dare una possibilità a tutti, ma la Rai non è un ente benefico né un ufficio di collocamento e la politica dovrebbe rimanere al di fuori, se non dai telegiornali, almeno dall’ufficio Risorse Umane. O almeno, non dovrebbe interferire così a gamba tesa.

L’ingerenza della politica

Per fare un esempio tangibile di ciò cui i telespettatori devono assistere, ricordiamo quanto avvenuto l’anno scorso. Era la stagione della Lega. Ecco, dunque, l’ingresso di volti vicini al partito, con fiumi di polemiche. Al governo vi era anche il Movimento Cinque Stelle, e allora le poltrone e i programmi sono stati spartiti a suon di duelli e di lanci di coltelli.

L’esempio riguarda, in realtà, qualsiasi partito si trovi al governo in un determinato momento storico. Il punto è: il telespettatore si deve accontentare del conduttore o dell’anchor piazzato dal partito di maggioranza di turno?

Perché il pubblico non può aspirare a ricevere un’informazione scevra da qualsiasi interferenza o un conduttore scelto per la sua professionalità? Chi guarda la televisione va alla ricerca di evasione, ma anche di punti di riferimento. Il rapporto di fiducia che si instaura tra pubblico e rete è fondamentale: è quello che le aziende definiscono fidelizzazione del cliente e a cui la TV di Stato dovrebbe ambire.

Programmi riempitivi

Propinare programmi mediocri, il cui unico fine è fungere da riempitivo per piazzare gli amici degli amici è un insulto all’intelligenza di chi guarda. Il pubblico dovrebbe trovare nella RAI il massimo riferimento.

Il telespettatore pretende qualità, sobrietà, intrattenimento, preparazione, competenza, a prescindere dal credo politico. La mediocrità la posso e la voglio vedere sulla TV privata, qualora la propinasse. La voglio trovare su Canale5, su La7, su Nove o Real Time. Reti, cioè, che non influiscono sulla televisione di Stato e che ne sono, invece, una valida alternativa, talvolta persino superiore in termini qualitativi.

Questione di opportunità

L’obiettivo di non essere accostati a uno o all’altro partito non è una questione giuridica, ma di opportunità. È opportuno risultare apolitici e apartitici per mera opportunità. Perché chi ascolta non deve avere il dubbio che chi sta parlando funga da megafono del leader di turno.

Il discorso vale non solo per i giornalisti, ma anche per i conduttori. Convertini e Cuccarini sono solo due dei personaggi su cui il gossip televisivo nelle ultime stagioni ha speculato. Illazioni, certo, ma i telespettatori sarebbero stati più felici di dare il bentornato a Lorella Cuccarini perché qualcuno aveva finalmente deciso di richiamarla al lavoro, anziché in seguito ad alcune esternazioni. Lo stesso dicasi di Convertini, associato ai M5S.

Al di là delle critiche e delle polemiche, gli va riconosciuto che gli ascolti di Linea Verde sono cresciuti. Dunque un esperimento riuscito. Non sarebbe stato più opportuno, pertanto, scoprire un Convertini capace alla conduzione a prescindere dalle amicizie personali? Il diretto interessato ha sempre smentito, ma il polverone alzatosi ancora prima della nuova vita in Rai in qualità conduttore ha rischiato di offuscare le sue competenze.

Giornalisti apolitici

Infine, tornando ai giornalisti, il telespettatore vuole essere certo che chi parla all’opinione pubblica dal pulpito di un telegiornale sia il migliore della sua categoria, o tra i migliori. Soprattutto, non vuole sapere per chi parteggia.

Un annoso problema che riguarda tutti i grandi anchor targati Rai che negli anni sono passati da lì. La Rai ha allevato decine di giornalisti che rimarranno nella storia della televisione, ma quasi tutti non hanno mai fatto mistero della propria appartenenza politica. Un rischio enorme per l’informazione, che la BBC ha arginato obbligando i propri dipendenti a risultare asettici. In Italia, invece, le cose funzionano all’opposto.

Un’occasione sprecata per la televisione di Stato in termini di meritocrazia e di trasparenza, quindi di credibilità. Perché, in fin dei conti, a pagare le conseguenze di questa folle lottizzazione è il pubblico, invogliato alla diaspora. E quando il processo diventerà inarrestabile, sarà difficile addossare la responsabilità all’avvento del digitale terrestre, alla conseguente frammentazione degli ascolti, alla nascita delle piattaforme on demand o all’espansione dei social network. A quel punto, la televisione pubblica dovrà fare un esame di coscienza e correre ai ripari. E non è detto che ci riesca.

 

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