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Francesco Cataldo, con Giulia torna negli States

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Francesco Cataldo è il chitarrista siciliano che ha stregato i grandi del jazz, cosa non del tutto banale per chi, come lui, è partito da Siracusa per sbarcare a New York, su invito di un mostro sacro come Scott Colley, col quale nel 2003 ha inciso Spaces, un album che ha avuto consensi in tutto il mondo. Quest’anno, con il nuovo album Giulia – dedicato alla figlia, ritratta in copertina-, Francesco spoglia la propria musica e, senza timore, mostra la sua anima.

‘Il suono di chitarra classica e la chitarra acustica baritona in Giulia è il frutto di una ricerca non solo tecnica (corde, set up, eccetera), ma anche e sopratutto introspettiva’, dice. ‘Come il cantante cerca per anni la sua voce interiore e fisica’, prosegue, ‘lo strumentista dedica la sua vita alla ricerca del suono che più lo possa rappresentare all’esterno, al mondo, al pubblico che lo ascolta’.

Cataldo ha inciso il brano con il grande pianista Marc Copland, con Pietro Leveratto e col batterista ‘in punta di bacchette’ Adam Nussbaum. Oggi Giulia è in rotazione radiofonica a Chicago, New York, Kansas City e Boston, ottenendo ottime recensioni, a conferma di come l’artista italiano sia riuscito a entrare di diritto tra i grandi del jazz internazionale.

Dalla Sicilia agli Stati Uniti, un lungo cammino. 

Sono nato a Siracusa il 26 settembre 1975, da mamma di Licata, paese di mare e pescatori, e papà di Buccheri, un paesino della zona montana di Siracusa. La mia vita si snoda su questi binari con una valle di mezzo, che corrisponde alla distanza tra mio padre, avvocato tutto d’un pezzo, razionale, equilibrato, e mia madre, laureata in giurisprudenza anche lei, ma emozionale come me. Se dovessi paragonarmi a un quadro, credo che mi ritroverei in un’opera di Picasso, con una testa qua e l’altra là, a spiegare il caos emotivo dal quale la mia musica ha origine. Una passione, la mia, che non mi ha lasciato scampo.

Come nasce l’amore per la musica? 

Ho iniziato a suonare il pianoforte, poi, spinto da mia madre, ho preso in mano la chitarra, dalla quale non mi sono più separato. Mi sono laureato in giurisprudenza, come tutti in famiglia, per poi diplomarmi al Conservatorio a ventitré anni. Da quel momento, la musica è diventata il mio mestiere.

Tra Spaces e Giulia c’è di mezzo il mare. Il mare di Ortigia, dove nasce la sua musica, ma anche un passaggio importante dalle chitarre elettriche di Spaces a quelle classica e acustica baritona di Giulia. Come mai è passato tanto tempo e cosa ha determinato il cambio di stile? 

Dopo un lavoro importante come Spaces, è necessario lo svuotamento da formule, costrutti e influenze. Spesso ho bisogno di fare deserto, che non è mai vuoto sterile, ma riflessivo. Un processo per liberarmi da quello che è stato, guardarmi dentro e ritrovare ispirazione. In definitiva, si alternano in me momenti di astinenza e fame di musica, un po’ come per il cantautore. Giulia è un album introspettivo e autobiografico dedicato a mia figlia, fotografata alla finestra, che sembra guardare il mondo e la vita. Con Giulia c’è anche il fanciullino che è in me e che continua a dialogare con sé stesso e con lei.

‘I brani di Francesco, belli come una carezza infinita destinata a perdurare per un lungo viaggio’. Queste parole di Pupi Avati descrivono al meglio la sua musica che è cinematografica, evocativa e rimane dentro come un bel ricordo: un’istantanea da portare con sé. È questa la sua caratteristica?

Questa caratteristica mi appartiene e, forse, è anche ossessiva. Scrivo sempre per immagini evocative che come fotogrammi scorrono nella mia mente. A volte basta un dettaglio, che, scivolandomi dentro, dà vita a un’ispirazione. Ho bisogno di vedere, di guardare: può essere un bambino che gioca sulla piazza assolata di Ortigia, un vicino che accenna un saluto dalla finestra, una barca in lontananza. Le immagini sono i testi, che danzano sui temi che scrivo. Forse per questo è definita cinematografica e devo dire che la cosa non mi dispiace per niente.

giulia cover album francesco cataldo

È un chitarrista che ha incantato i grandi del jazz internazionale, che, però, non si definisce un jazzista. È così?

La mia musica non intende prendere le distanze dal jazz, ma semplicemente invitare a guardare oltre i confini, i limiti che qualunque definizione può dare. Un respiro più ampio per brani che hanno una forza evocativa fortissima, perché, come ho detto, è dalle immagini che parte l’ispirazione. Del jazz mi manca la passione e la consuetudine all’improvvisazione estrema che si fa sui temi. Personalmente, sono legato alle melodie fisse, che sono i miei punti di riferimento. I temi, per me, sono sculture che si possono illuminare con luci diverse, guardandole da punti di vista differenti, ma quelle sono e quelle rimangono. Ogni volta che suono dal vivo, certamente ci saranno coloriture differenti, ma il tema rimarrà scolpito con contorni ben definiti, fedele a sé stesso. Come un buon bicchiere di vino, che diversamente sarebbe ‘annacquato’.

Il suo rapporto con l’America è molto stretto e consolidato: com’è stata accolta Giulia, dopo il successo di Spaces?

Giulia è in distribuzione in Europa e negli Stati Uniti e l’obiettivo è di partire con un tour negli States nel 2021, Covid permettendo. È in rotazione radiofonica a Boston, Chicago, Kansas City e New York. In Giappone, è stata seconda in una playlist prestigiosa e in questi giorni ho ricevuto un’ottima recensione da una testata specializzata coreana. Queste sono soddisfazioni che mi incoraggiano, dandomi conferme importanti. Sto lavorando, inoltre, a uno spettacolo che mi piacerebbe portare nei teatri dove coniugare musica e immagini. Vorrei, infine, realizzare un sogno che coltivo da tempo: sentire la mia musica in un film.

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