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L'Ultimo Bacio su Netflix, manifesto di una generazione disastrata (oggi più di ieri) - AP Magazine
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L’Ultimo Bacio su Netflix, manifesto di una generazione disastrata (oggi più di ieri)

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Era il 2001 quando L’Ultimo Bacio debuttava al cinema diventando uno dei film cult del decennio. Sei mesi nelle sale, cast eccezionale, attori entrati di diritto nell’Olimpo del cinema italiano, una storia che fa sognare gli adolescenti e riflettere gli adulti. Un successo. Da quel momento, Gabriele Muccino non è più un giovane regista che prova a farsi strada, ma il regista della nuova generazione che rischia di spodestare i padri della settima arte.

Al film sono stati dedicati centinaia di servizi televisivi, pagine e pagine di giornali. Stefano Accorsi diventa un sex symbol, Claudio Santamaria, Pierfrancesco Favino e Giorgio Pasotti non sono da meno. Martina Stella, la debuttante, un po’ enfant prodige un po’ Lolita, che fa sognare migliaia di spettatori. Un ingranaggio perfetto. A quasi vent’anni dall’uscita, Netflix lo ha inserito nel suo catalogo e ci sono inciampata.

I protagonisti de L’Ultimo Bacio

È la storia di Giulia e Carlo: ventinove anni, fidanzati da tre, convivono e sono in attesa del loro primo figlio. Non sono sposati perché Carlo è refrattario alle etichette, alle convenzioni sociali, vuole sentirsi ‘libero di scegliere’. In poche parole, non vuole impegnarsi. In preda ai dubbi e alle insicurezze, si rifugia tra le braccia di una diciottenne.

A fare da contorno, le storie disastrate degli amici di Carlo. Adriano, sposato con Livia, alle prese con il figlio neonato. Paolo, ossessionato dalla ex. Alberto, single indefesso con il sogno di trasferirsi all’estero. Sono tutti in crisi, tutti terrorizzati dal compiere trent’anni, tutti spaventati da cosa riserverà loro il futuro. Soprattutto, vivono le convenzioni con angoscia: se le accetti sei un fallito. Tutti così, tranne Marco, l’unico tutto d’un pezzo, felice di sposare le convenzioni e convivere con le etichette.

Il confronto tra i trentenni di oggi e quelli del 2001

Mentre lo riguardavo, mi sono chiesta: Siamo davvero così?. I trenta/trentacinquenni di oggi sono così, impauriti, insicuri, spaventati dall’idea di dover crescere? La risposta che mi sono data è: No, siamo anche peggio.

L’Ultimo Bacio è un perfetto affresco generazionale, una fotografia storica degli anni Duemila e della voglia di distaccarsi dai padri al fine di non ripeterne gli errori. Per poi capire, invece, che la storia si ripete e che i figli diventeranno come i genitori, alcuni meglio, altri peggio.

I trentenni de L’Ultimo Bacio

Nel 2001 il problema dei trentenni era la poca voglia di mettere su famiglia, di assumersi le responsabilità, in sostanza, di crescere. Di diventare grandi. Adulti. Non avevano altri grattacapi a cui pensare. Trent’anni erano pochi per aver già costruito tante sicurezze (materiali e non), ma non così pochi da non aver già raggiunto una determinata posizione economica e sociale.

All’inizio del terzo millennio era ancora tutto possibile. Lavoro, carriera, amore, viaggi. Il mondo come lo conoscevamo era una cartolina a tinte rosa che mostrava le mille possibilità. Si poteva avere tutto, bastava chiedere ora ai genitori ora alla vita. Nessun paletto, nessun rifiuto. Tutto facile e a portata di mano. Ecco, forse, perché la voglia di assumersi le proprie responsabilità iniziava a latitare. Al di là di questo, era tutto lineare.

Oggi, invece, siamo anche peggio, dicevamo. Sì, perché un trenta/trentacinquenne di oggi non deve pensare solo alla famiglia. Nella gran parte dei casi, un trentenne degli anni Venti deve pensare innanzitutto al lavoro, non più così sicuro come due decenni addietro. Soprattutto, se prima il concetto di flessibilità manteneva ancora un significato interessante, oggi è sinonimo di guadagni minimi o pochissime garanzie a fronte di grandi sforzi.

Il trentenne del 2020

Il primo pensiero del trentenni degli anni Venti non è sentirsi ingabbiato se la compagna è incinta. No, il trentenne di oggi non ha paura di diventare genitore. Non lo contempla proprio, un po’ per paura di assumersi le proprie responsabilità, quindi – anche stavolta – di crescere; un po’ perché non ha una storia talmente stabile da poter pensare in grande.

Siamo peggio, poi, perché se loro avevano paura di crescere e fingevano di comportarsi da adulti, combinando casini, noi non facciamo neanche lo sforzo. Ci fermiamo ancora prima. Ecco che le due generazioni a confronto mostrano due ritratti impietosi. Da un lato, i trentenni di vent’anni fa sono dei ragazzini viziati che vogliono cambiare il mondo, ma finiscono per scendere a compromessi con la vita e le sue etichette secolari.

Dall’altro, i trentenni di oggi sono eterni Peter Pan, che devono combattere non solo la paura di crescere, ma anche quella di non poterlo fare in modo dignitoso per via delle troppe incertezze. Dunque, meglio tagliare il problema alla radice e non provarci neanche. Chiudersi a riccio e impostare la propria vita come una ruota che gira sempre uguale a sé stessa. Amici, palestra, sushi, cane o gatto (a seconda delle preferenze), aperitivo, pizza, festa. E si ricomincia (pandemia permettendo, of course).

Il fascino del Peter Pan

Dunque, noi siamo peggio dei trentenni di vent’anni fa, però una domanda resta: che cosa ci trovavamo di così sexy in Carlo? È immaturo, refrattario agli impegni, tradisce la compagna incinta con una ragazzina, la notizia di diventare padre lo soffoca. Meglio perderlo che trovarlo. E così tutti i suoi compagni di avventure.

Nonostante i casini, a un certo punto del film, Carlo dice: ‘Decidi che la fase dell’eterna adolescenza è finita e che è ora di crescere. E crescerai. Non è questo che hai sempre sognato?’. La risposta è lasciata allo spettatore.

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