Domenico Restuccia: ‘Elisir è una vera scuola’, intervista

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Domenico Restuccia siede alla postazione social di Elisir, il programma di Rai 3 dedicato alla salute, condotto da Michele Mirabella e Benedetta Rinaldi. Un biglietto Torino-Roma con qualche tappa intermedia a Milano. L’approdo al contenitore del daytime della mattina arriva dopo diversi anni di gavetta, iniziata con TvTalk e proseguita con The Cooking Show, Rischiatutto, Colorado, Tutta Salute e Geo.

‘Per la seconda stagione di Elisir, che ai tempi si chiamava Tutta Salute, la Rai voleva investire sulla parte social’, dichiara ad APmagazine, ‘cercavano qualcuno che potesse raccontare in video quello che succedeva sul web’. Da qualche tempo, collabora anche con il dipartimento di Rai Cultura, per cui si occupa di architettura e design.

La sua postazione è una finestra sul mondo che vuole rispondere alle domande dei telespettatori. Negli ultimi mesi come è cambiato l’approccio da parte del pubblico?

È cambiato tanto perché tutte le patologie hanno trovato un nesso con il COVID. Le persone sono preoccupate e spesso arrivano domande del tipo: ‘Ho il diabete, sono più soggetto al COVID-19?’. In molti hanno avuto la tendenza a unire la loro patologia con la preoccupazione che possa esporli più facilmente al virus.

Da cosa è dipeso?

La gente non ha ricevuto adeguate istruzioni sull’utilizzo dei dispositivi di sicurezza, come la mascherina, i guanti e il gel. Spesso i telespettatori chiedevano: ‘È preferibile indossare due mascherine? Devo disinfettare la spesa quando torno dal supermercato? Lascio le scarpe sul pianerottolo?’. Erano davvero in balìa di quegli strumenti e non sapevano come utilizzarli.

Quanto è difficile parlare di salute in un momento così delicato? 

La televisione si è trasformata, oggi ogni studio ha un virologo. Anche noi siamo cambiati perché a marzo la gente voleva informazioni sul virus e abbiamo fatto un cambio di rotta totalizzante. Premetto che a Elisir abbiamo tutti gli strumenti per parlare del COVID e, in generale, di medicina, ma parlare di altre patologie non era utile, il pubblico voleva chiarezza su quella situazione eccezionale. Adesso con la nuova stagione teniamo sempre un’attenzione sul COVID, sulla stretta attualità, però ci concentriamo anche su tutte le altre malattie, che continuano a esserci.

In questo contesto il servizio pubblico assume un ruolo ancora più importante. Avvertite un peso maggiore? 

Il servizio pubblico è fondamentale perché le fake news sono il male di questo momento. Riescono a generare tanti problemi quanti il Coronavirus perché la cattiva informazione crea un senso di spaesamento e non ti fa capire a chi dare retta. Il Servizio Pubblico ti dà quella autorevolezza e quella carta d’identità per parlare di questo argomento, però alcune rubriche erano davvero solo sulle fake news. Mi sono reso conto che la gente fa ancora fatica a capire se un video su Facebook sia attendibile o meno.

Si è parlato di infodemia. Abbiamo ricevuto troppe informazioni?

Alcuni programmi, come Elisir, hanno il patentino per poter parlare di salute e di certi argomenti. Il rischio dell’infodemia, invece, è la semplificazione. È giusto semplificare per dare gli strumenti a tutti per capire, ma se il rischio è banalizzare, parlarne male, allora piuttosto non ne parli. Quello che mi è dispiaciuto è stato vedere alcuni programmi che del COVID hanno fatto il loro cavallo di battaglia, quando fino al giorno prima facevano intrattenimento. È altrettanto vero che i programmi che fanno grandi numeri devono fare i conti con il fatto che ci sono persone che il telegiornale non lo guardano o si informano poco. Abbiamo, però, dei virologi che sono diventate star.

Troppi virologi in TV? 

Sono le nuove star. Alcuni li conoscevo già da prima perché venivano ospiti in studio e la loro autorevolezza si è sempre mantenuta in quanto nascono come professori e divulgatori scientifici, non come personaggi. Ho notato che adesso si chiamano per cognome come si fa con la D’Urso o con la Venier. Vuol dire che si è raggiunta la saturazione dell’argomento in tutti i campi della televisione perché se diventano delle star significa che sono ospiti ventiquattr’ore al giorno in modo orizzontale, in tutti i palinsesti. Il COVID, poi, è un virus televisivo.

Perché? 

È un virus che ti permette di avere la scaletta, nostro malgrado, sempre piena di colpi di scena. Prima di Natale, mentre provavamo a capire il nuovo decreto, è arrivata la variante inglese, il colpo di scena prenatalizio. Dal punto di vista televisivo è perfetto. Mi sembra davvero un virus scritto da un gruppo di sceneggiatori, quasi alla Boris. Televisivamente parlando è ‘appassionante’. Pensavamo che col Natale tutti gli argomenti fossero stati sviscerati a dovere, e invece no.

Qual è il rischio?

Il problema è capire a chi dobbiamo dare retta. Ognuno dice la propria. Le cose cambiano velocemente e questa informazione costante e continua dovrebbe forse andare a tappe. A volte non si ha il tempo di raccogliere l’informazione, che viene smentita poco dopo.

Il tema vaccini scalda l’opinione pubblica. Che idea si è fatto?

Mi spaventa non tanto il vaccino, ma l’informazione, perché la gente vuole sapere cosa c’è dentro. Non puoi dire questo sì questo no, non siamo in gelateria. La gente, invece, si sente autorizzata ad avere voce in capitolo, ad avere questa presunzione.

La televisione ha saputo adattarsi? 

Lo stato di fatto porta comunque a far capire che il virus c’è, non lo si può ignorare. In quel periodo Uomini e donne è stato ridimensionato. Un esperimento forse non particolarmente riuscito, ma che ho apprezzato perché hanno capito i limiti e hanno cercato di aggirare l’ostacolo. L’ho trovata una strategia positiva. Di certo, però, bisogna anche avere i mezzi per poterlo fare.

La TV si è forse spogliata di tanti orpelli.

Una grande novità è il collegamento casalingo. Gli ospiti mandati in video struccati, collegati da casa, una cosa che fino a qualche tempo fa si faceva raramente. Adesso puoi avere un parterre di ospiti collegati da casa senza pensare che il tuo programma sia qualitativamente basso.

Sarà il futuro? 

Secondo me questa cosa un po’ rimarrà, anche se intervistare un ospite in studio è un’altra cosa. In studio c’è un linguaggio non verbale che ti permette di instaurare un dialogo complice con il tuo interlocutore.

Il piccolo schermo rischia temporaneamente di spegnersi?

L’impossibilità della fisicità in studio è un limite invalicabile. Vero è che la nostra televisione è fatta per la maggioranza da talk. Se pensiamo alla tv degli anni ’90, con una pandemia di questo tipo avrebbero chiuso tre quarti di programmi. Oggi, invece, sostituisci l’ospite con uno schermo e, tutto sommato, il format lo reggi. Guardiamo Ballando con le stelle, prima slittato, poi colpito dai casi positivi… Credo che l’impronta televisiva da talk degli ultimi anni abbia salvato, suo malgrado, tante reti.

Portare i social in TV è un espediente sempre più ricorrente. È la strada giusta per intercettare più fasce di pubblico? 

Sì, a patto che i social di un programma non diventino lo sgabuzzino del programma stesso, dove ogni tanto butti una foto o un’informazione. Devono avere una vita propria nel vero senso della parola. Devi dare contenuti studiati ad hoc per un pubblico che naviga su internet. Nel caso di Elisir, il pubblico è alto e il social che funziona meglio è Facebook. Noi, però, abbiamo cercato di capire come un nostro utente potesse allacciarsi a Facebook per arrivare al nostro obiettivo e, cioè, lanciare delle domande. Quindi abbiamo deciso di mandare in diretta Facebook un pezzettino di trasmissione, in modo che gli spettatori possano porre le proprie domande nei commenti.

Lavora a Elisir da diversi anni. Cosa le sta insegnando? 

Mi sta dando la costanza di lavorare in diretta tutti i giorni per dieci mesi l’anno. Un copione al giorno per 210-215 puntate, una vera scuola. Si va sempre in diretta, anche sotto stretto lockdown. Poi, sicuramente stare vicino al conduttore, Michele Mirabella, aiuta. Lavoriamo insieme da quattro anni e ogni volta mi mette alla prova in modo diverso. Alla fine della puntata facciamo il resoconto per capire se è andata bene oppure no e questa cosa mi diverte.

È un privilegio lavorare con un conduttore di questa caratura.

Sì, e me ne rendo conto soprattutto quando facciamo le prove. Ogni volta ci si adatta e noto come, dall’alto della sua carriera, risolve subito i problemi, trova la chiave per fare bene. Poi il suo linguaggio: ogni giorno imparo una parola nuova.

Quali sono i rapporti con Benedetta Rinaldi? 

Benedetta è brava, simpatica e generosa, e non è scontato. È generosa a livello di tempi, se sa che hai un intervento fa di tutto per fartelo fare e non è da tutti. E poi è riuscita a entrare in punta di piedi in ambito medico, che poteva anche non appartenerle, e ha acquistato la sua credibilità. Riesce a fare questo mestiere con serenità e tranquillità anche se sta parlando di un intervento a cuore aperto. Devo dire che si è raggiunto un buon equilibrio e ci sto bene.

Si parla spesso di televisione vecchia. In base alla sua esperienza, c’è spazio per i giovani? 

Non ho mai fatto un provino perché c’era un posto da riempire, ma ho sempre proposto cose e ruoli che prima non c’erano. Forte delle esperienze che avevo fatto e speranzoso che l’interlocutore credesse nelle mie idee, sono riuscito a intraprendere questo percorso. Poi, la concezione della tv degli anni 90, con i casting per i conduttori giovani, credo che oggi non esista più. Penso che ci si debba specializzare in qualcosa cosa e, da lì, proporre la propria competenza. Allora si può diventare personaggi perché si crea la necessità di avere in video quel determinato ospite. È ovvio, però, che se nessuno si propone, la televisione neanche sente l’esigenza di introdurre un nuovo punto di vista. Di certo, non sono più i tempi per la chiamata vecchio stile.

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